Lovely Giappone, lovely Tokyo

Oggi, per la rubrica Guest Traveler, ospito Daniela, del blog Tradurre il Giappone: lo faccio perchè mi incuriosisce molto il raccontare su queste pagine un paese così lontano, a me sconosciuto e orientale. Ecco la sua Tokyo, questo è il primo capitolo del suo viaggio in Giappone.
PRIMA PARTE
Era il viaggio che aspettavo da tanto, troppo tempo. Ho lasciato il suolo giapponese 6 anni fa con il cuore pesante di chi sa che si sta lasciando alle spalle qualcosa di unico, meraviglioso e spaventoso allo stesso tempo. Non sapevo quando sarei riuscita a tornare, né se veramente lo volessi con la stessa voglia e lo stesso entusiasmo di un tempo. Ma poi lo senti, quando arriva il momento. Una scarica che corre lungo la spina dorsale, e arriva fino alla punta delle dita, le stesse con cui ho fatto il click sul sito Alitalia, approfittando di un’offerta che, effettivamente, non si poteva proprio ignorare.

 

Tokyo ci accoglie in una calda mattina di inizio agosto. E’ molto presto, ma sbrighiamo le pratiche burocratiche in pochi minuti. Le 12 ore di volo (senza sonno!) si fanno sentire, mi aggiro per Narita in modalità zombie, ma sento comunque il cuore a duemila: sono di nuovo qui. Ma fino a che sei in aeroporto non realizzi mai fino in fondo, dopotutto l’aeroporto è il non luogo per eccellenza ed essere a Roma, Tokyo o Londra non fa poi questa gran differenza. Prendiamo il Narita Express che in meno di un’ora ci condurrà alla stazione di Tokyo, e lì arriva. Mentre osservo dal finestrino il paesaggio scorrere veloce, mutare alla stessa velocità delle mode di Tokyo, lo sento: il nodo si scioglie e piango. Non posso credere di essere qui, ancora. Shinjirarenai, non ci posso credere.
Dunque, arriviamo in città.
La frenetica vita cittadina è ormai iniziata, le persone corrono da una parte all’altra, questa massa umana indistinta fatta di salary man con la camicia bianca e i pantaloni neri di ordinanza ci avvolge e diventiamo un tutt’uno con essa. E il caldo torrido e afoso del Giappone non si smentisce. Arrivare all’hotel con 12 ore di volo alle spalle, bagagli che man mano diventano sempre più pesanti e un’umidità che ti si attacca addosso si rivela essere quasi un’impresa epica, ma stoici resistiamo.
E finalmente arriviamo al primo di una lunga serie di hotel che ci accoglieranno in questo viaggio, sempre col sorriso sulle labbra e la proverbiale gentilezza dei receptionist.
Siamo tra Ueno e Asakusa, lungo l’Asakusa doori. Ci danno subito la stanza e, a quel punto, crolliamo come due pere cotte. Il jet lag è micidiale, ci rialziamo che è già pomeriggio, affamati e ancora assonnati. Ma siamo a Tokyo, è arrivato il momento di uscire.
Girovaghiamo nei dintorni, ci perdiamo per le stradine silenziose di Nishi Asakusa, tra le sue botteghe tradizionali, ed eccola, la vediamo in lontananza: la Tokyo Sky Tree, inaugurata a maggio 2012, è la torre più alta del Giappone (634 m). Mi sarebbe piaciuto salirci per godere del panorama sulla città, ma il costo piuttosto alto (2,000 yen) e anche la difficoltà nel reperire i biglietti ci ha fatto desistere.
Siamo ad Asakusa, una delle zone di Tokyo che preferisco, il cuore della vecchia shitamachi (letteralmente: la città bassa, cioè gli antichi quartieri popolari), di cui ormai non rimangono che poche tracce. Solo pochi passi e sembra di piombare in un’altra realtà, in un’altra epoca. Asakusa era la vecchia zona dei divertimenti, dove ci si sollazzava al teatro Kabuki e al quartiere a luci rosse. Ormai l’antico splendore è passato e la zona è molto turistica, ma rimane probabilmente l’ultima zona di Tokyo in cui respirare un po’ della vecchia atmosfera della shitamachi. 
La Nakamise dori è gremita di turisti, impossibile non fermarsi a curiosare tra i vari negozietti che vendono souvenir e specialità culinarie. La strada ci conduce fino al Sensoji, il tempio più antico di Tokyo, costruito nel VII secolo, anche se l’edificio attuale è una ricostruzione del dopoguerra.
Nella luce suggestiva del tramonto ci aggiriamo per i vicoli, i locali iniziano ad affollarsi e anche noi iniziamo a cercare un posto dove mangiare. Alla fine ci ritroviamo in un localino che serve tonkatsu, la cotoletta di maiale panata e fritta accompagnata da cavolo verza e riso. Il locale è delizioso e piuttosto piccolo, sentiamo subito gli occhi puntati su di noi: gli unici due gaijin (stranieri) del locale.
Questa sensazione di sguardi puntati su di noi non svanisce, ma in realtà non è fastidiosa, è uno sguardo discreto e incuriosito, e dopo un po’ capiamo a chi appartiene: una gentile signora ci guarda, poi si alza e viene dritta verso di noi, che stiamo mangiando.

Ci lancia un’altra occhiata, poi inizia la sua spiegazione: ci mostra il modo migliore per assaporare al meglio il sapore della carne, come intingerla nella salsa di soia e poi mischiarla alla senape: la signora è paziente, ci metto un po’ a capire come dovremmo mangiare e non ci lascia un secondo finché non abbiamo fatto come diceva. Torna al suo posto e continua a osservarci, con un piglio serio e posato.

Infine, quando poi le dico che gustata in questo modo effettivamente la carne era molto più buona, si è illuminata in un dolce sorriso, poi con l’aria soddisfatta ha lasciato il locale. Gochisosama deshita, grazie per l’ottima cena.

Ci domandiamo se questo incontro è stato reale, o se la vecchina fosse uno spirito venuto da un passato lontano. A questo punto, finita la cena e ancora un po’ scombussolati dal jet lag, torniamo verso l’hotel.
Con il Giappone per oggi ci fermiamo qui, vi aspetto alla prossima puntata del viaggio di Daniela. 😉

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